Salvini riesce, a Milano, nell’impresa di Ventura e sarà difficile trovare un Mancini.
La catastrofe abbattutasi su ciò che rimane del centrodestra a Milano era ampiamente prevista.
Nondimeno fa molta impressione il panorama di macerie che lascia la più disastrosa campagna elettorale nella storia di quella che, per tutto il primo decennio del secolo, fu un’invincibile armata.
I numeri sono più che impietosi, crudeli.
Senza, per l’appunto, confrontarli con i fasti del berlusconismo regnante, è sufficiente tornare a cinque anni fa per provare un senso di vertigine.
Nel 20016 Forza Italia raggiunse un ragguardevole 20%. A cui va sommato il 3,5% di un suo “spin off” ovvero la lista “Milano Popolare”.
Oggi è precipitata al 7,7 %. E anche sommando il misero 1,8 raggiunto da “Milano Popolare” non si arriva al 10.
Il che vuol dire la sostanziale irrilevanza in Consiglio Comunale. E la falcidie definitiva di una classe dirigente che, pure, qualche testa buona ce l’aveva.
Assai deprimente anche l’esito della “sfida all’ok corral” tra i due colossi sovranisti.
La Lega prende il 10,7% ossia un po’ meno di 5 anni orsono (e già erano rimasti delusi allora).
Fratelli d’Italia fa un grande balzo in avanti. Dal 2,5 al 9,7.
Ma, a parte il mancato “sorpasso a destra” del competitor, l’attesa era di ben altra portata.
E sommando i voti si supera solo di qualche frazione decimale il 20%. E dove vai con sti numeri?
Se, allo scorso giro, il disimpegno di Salvini al ballottaggio (com’è noto diede ordine ai suoi di “stare fermi”) fu determinante per la sconfitta di misura di Stefano Parisi, questa volta il capitano ha voluto superarsi, costruendo dalle fondamenta e in beata autonomia una disfatta senza precedenti.
Le sconfitte, in politica, si rivelano sempre orfane.
C’è sempre qualche fattore esterno o di contorno che, a detta dei genitori putativi, rende incerta la paternità.
In questo caso il padre che ha partorito per partenogenesi la debacle milanese è assolutamente certo.
La responsabilità pressoché esclusiva ricade sulle spalle, tutt’altro che grandi, di Salvini.
E’ stato lui a incoronarsi capo assoluto della coalizione per rivendicare la prerogativa di indicare insindacabilmente il candidato sindaco.
E’ stato lui a postulare la necessità che si trattasse di un “civico” ponendo un veto insuperabile alla candidatura di Lupi (che avrebbe avuto ben altre chances) e a quelle di altri “politici” di cui era girato il nome (come l’ex deputato Fabio Minoli).
E’ stato lui a sciogliere le riserve solo ai primi di luglio ossia con un ritardo inconcepibile, pur avendo beneficiato del rinvio ad ottobre delle elezioni originariamente previste per maggio (Sala era in campagna elettorale già dal precedente Dicembre).
E’ stato lui a lanciare e gestire l’imbarazzante “beauty contest” tra “civici” in cui si sono affacciati i personaggi più improbabili (tra cui gente con anelli e collanine dal profilo professionale evanescente) dimostrando che, in quasi 30 anni di attività politica a Milano, non ha saputo creare nessuna relazione con soggetti di alto livello.
E’ stato lui, infine, a “blindare” la campagna elettorale del candidato, mettendolo al guinzaglio di dirigenti di sua stretta fiducia di cui tutti conoscevano l’assoluta inettitudine organizzativa e impedendo la strutturazione di una squadra di esperti, espressione degli altri partiti della coalizione, che, quanto meno, gli impedisse di dire le stupidaggini che, poi, ha puntualmente detto per via dell’inesperienza.
Così è e non può, certo, essere evocata la logica del capro espiatorio che, da solo, assolve i peccati di tutti.
Perché sono peccati che ha commesso il capitano in orgogliosa solitudine.
E il peccato più grave, per cui non può esserci nessuna assoluzione ma solo lo sprofondo nel fuoco eterno, è quello di aver dato mostra di siffatta arrogante sciatteria, quando il soglio di “primo cittadino” era, forse, ancora più contendibile che non allo scorso giro.
Beppe Sala, infatti, era molto più forte nel 2016, in cui si presentava come eroe di “Expo”, che non dopo 5 anni in cui aveva fatto il Sindaco in maniera palesemente svogliata e con altre ambizioni intesta, senza mai riuscire a creare una vera empatia coi milanesi, neppure nei mesi drammatici del lockdown.
I sondaggi che giravano la primavera scorsa fotografavano un “mood” tutt’altro che favorevole al primo cittadino in carica.
Addirittura prevedendo la vittoria schiacciante di un ipotetico Albertini “usato sicuro”.
E anche le ricerche di opinione interne ai partiti che sostenevano Sala davano indicazioni tutt’altro che rassicuranti. Infatti erano molto preoccupati. Così come lo era Sala stesso.
Insomma i presupposti erano sostanzialmente favorevoli al centrodestra, prima che venissero buttati via malamente i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno.
Già un candidato autorevole e riconoscibile avrebbe avuto le sue difficoltà a giocarsela in un mese e mezzo scarso. Figuriamoci un perfetto sconosciuto, privo di qualsivoglia attrezzo politico/amministrativo e totalmente digiuno di comunicazione.
Il disastro milanese ha, per converso, un solo merito.
Quello di fare chiarezza in modo definitivo.
Certificando, una volta per tutte, che Salvini, tolto dal suo mondo di felpe, divise, merendine, ruspe e cuori immacolati di Maria (mondo, peraltro, dissoltosi alla vigilia di ferragosto tra piattini pieni di cocaina e siti per incontri particolari), è, politicamente parlando, un incapace a tutto tondo.
Che Milano si incaricasse di suggellare la fine ingloriosa di un bluff, non stupisce.
E’ una città che, ancor prima che anticipare processi politici su scala nazionale, ha sempre saputo riconoscere e, poi, espellere la mancanza di serietà. Figuriamoci la vera e propria cialtroneria.
Ed i processi politici che Milano, nel bene e nel male, ha sempre innescato sono, poi, piuttosto rapidi nello svilupparsi e di lungo periodo nell’espandersi.
Berlusconi perse Milano nel giugno del 2011. Cinque mesi dopo dovette dimettersi da presidente del Consiglio. Due anni e mezzo dopo subì una scissione dopo un rocambolesco “no contest” alle politiche. Tre anni dopo era a svolgere volontariato coatto in una RSA di Cesano Boscone.
E stiamo parlando di Berlusconi, ovvero di un gigante, e non solo in confronto a Salvini.
Il capitano, già oggi, è un morto che cammina. E non ha davanti a sé ancora molta strada.
E’ riuscito in un impresa che, a livello calcistico, era riuscita solo a Ventura con la nazionale.
Ma non sarà facile, per una area politica che resta maggioritaria ma si è (giustamente) rifugiata nell’astensione, trovare un Mancini.
Stefano Pillitteri