Natale da buttare 2018.

Questa volta non si tratta di una vera e propria riflessione politica.

Ma è passato da un giorno Natale. E ricorre la festività del protomartire che mi diede il nome. Dunque uno spazio a qualcosa di un po’ più personale è concedibile.

Partiamo dalle canzonette.

“Natale da buttare”, in realtà nota come “notte di natale”, è, come quelli della mia generazione ricorderanno, una vecchia canzone di Claudio Baglioni. Narra di un adolescente che, proprio nel giorno in cui “siamo tutti più buoni”, si rende conto di aver perso definitivamente la fidanzatina. Fissa il telefono. Ma sa che non squillerà: “lei non chiama più” Mentre le campane suonano a festa sente di morire dentro: “Dio tu stai nascendo e muoio io, tu che faresti al posto mio, ora che perdo pure lei, ho dato un calcio ai sogni miei”. Insomma, la quint’essenza della straziante “pena d’amore” che, un po’ a tutti, è capitato di soffrire da ragazzini. E, non di rado, in situazioni in cui era, invece, d’obbligo sentirsi lieti. Ma, toccando proprio il Natale, Baglioni aveva, davvero, scelto la corda più sensibile. Non senza un certo sadismo. Perché era una ricorrenza che sapeva realmente toccare il cuore. E non a caso è sul concetto di natività come miracolo della vita, in contrappunto alla morte interiore del protagonista, che ruota l’intera canzone. Il Natale, dunque, è da buttare perché la “pena d’amore” oscura la gioia di celebrare il miracolo incarnato dal 25 dicembre, la sua primaria e autentica essenza.

Lungo preambolo “pop vintage” per giungere all’oggi. E al suo “Natale da buttare”.

Devo confessare che mai come quest’anno (ma proprio mai) ho avvertito come insopportabile quel fondo di ipocrisia che, parliamoci chiaro, ha sempre caratterizzato le festività natalizie con la retorica di bontà e altruismo che ne connotano l’advertising.

Il giorno in cui, a parole, rivolgiamo il nostro pensiero agli altri e ci sentiamo, per una volta, in solidale armonia con un’umanità unita nell’augurio di un mondo senza cattiveria. E, nei fatti, ci abboffiamo in stereotipe e nevrotizzanti convivialità in attesa che, giunta mezzanotte, si passi al rito, tutto meno che catartico, dello scartamento dei prodotti oggetto di acquisto compulsivo nei giorni precedenti.

Sempre stato così.

Con puntuale polemica (anch’essa ipocrita) sulla dimensione consumistica che obnubila quella spirituale della festa più festa dell’anno. Da che sono bambino non ricordo Natali in cui la dicotomia non si riproponesse paro paro. Epperò un fondo di gioia, di autentico sentimento di unità, quello non mi era mai mancato. Nessun Natale, neanche quelli rattristati per la perdita di una persona cara con cui lo si era festeggiato l’anno prima, era privo di un suo tepore per l’anima. Nessun Natale era mai “da buttare”. Mai.
Ecco, quest’anno, l’ho avvertito, per la prima volta in vita mia, come una moneta falsa. Come un sordo rumore di fondo che finge di essere musica. Come i falsi ed odiosi abbracci che si è costretti a scambiarsi in una distrutta famiglia. Come un stella defunta da milioni di anni di cui ci giunge, gelida, la luce che fu.

Per la prima volta è stato davvero un “Natale da buttare”.
E senza nemmeno un barlume della malinconica dolcezza e del sollievo kitsch dato delle note Baglioniane.
Semmai la voglia di gridare basta, smettiamola di prenderci per il culo.

E senza alcun timore di incorrere in blasfemia. Ma anzi, al contrario, con l’imperativo interiore di non soggiacere alla dimensione blasfema di un rito collettivo totalmente svuotato dal messaggio di speranza Cristiana. E, volendo, anche da quello, pagano del “Sol Invictus” che esprime, pur sempre, la speranza in una luce vitale che non mancherà mai di riaccendersi, nemmeno dopo i rigori del più buio e glaciale degli inverni.

Il 2018 è stato un anno orribile.

E senza la nobiltà del tragico. Orribile e basta. Nemmeno in stagioni, in realtà, molto più cupe e financo crudeli, della quota di storia patria di cui sono testimoni i miei 51 anni, ho visto straripare i peggiori sentimenti che può esprimere una collettività, come in questo sciagurato 2018.

E mai li avevo visti vellicare con tanto cinismo, con tanta avida indifferenza, con tanto svergognato utilizzo della menzogna, della superstizione, dell’ignoranza.

Un anno così non poteva che produrre un “Natale da buttare”.

Altro che bambino, grotta, bue e asinello. La vera immaginetta di questo Natale è stata quella dei richiedenti asilo buttati in mezzo alla strada in pieno Dicembre perché così “siamo più sicuri”. Roba da castigo divino.

Poi, anche nelle notti più nere dell’inchiostro, un puntino di luce c’è sempre.

La mattina di Natale, con lo stato d’animo di cui ho detto, mi sono concesso uno di quei pochi brandelli di messa ammessi dalla mia natura di credente Cristiano ostinatamente “non praticante”.Sono entrato nella Chiesa del mio quartiere mentre il giovane Prete pronunciava una predica non banale ma venata da una certa quale rassegnazione. Ma arrivati, poi, all’invito a “scambiarsi un segno di pace”, vi ho trovato quel germe di verità che, inutilmente, avevo cercato in una festa parsami scempiata. E basta quello.

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