La preoccupante gravità dei fatti di Linate.
Nella giornata in cui si ha la (superflua) conferma che i “partiti degli onesti”, presto o tardi, si rivelano un ricettacolo di ladruncoli (qualcuno si ricorda di IDV?) e il “capitano”, dopo essersi proclamato pronto a patire l’ergastolo come un novello Silvio Pellico, si commuove per essere stato graziosamente salvato dal processo su cui discettava con tanta baldanza, è successo un fatto di una gravità assoluta.
L’ultimo giorno di questo finto inverno poteva trasformarsi in una delle date più luttuose ed agghiaccianti dal dopoguerra ad oggi.
Se così non è stato lo si deve a un bambino coraggioso e intraprendente.
E a dei carabinieri che si sono dimostrati molto più efficienti di qualsiasi “corpo speciale” tra quelli celebrati al mondo. E’ difficile (e terribile) immaginare l’entità della scossa tellurica che avrebbe squassato il paese se, oggi, stessimo contando il numero dei piccoli cadaveri carbonizzati estratti da quell’autobus. Si sarebbe trattato di un trauma dirompente. Che avrebbe segnato un tragico e fatale spartiacque.
Ma i fatti di Linate uno spartiacque già lo sono.
E non solo perché, di fatto, da quando siamo entrati nell’era del terrore planetario diffuso, costituiscono il primo attentato compiuto nei confini patri.
Ma perché siamo al cospetto di una tipologia di movente del tutto nuova.
L’autista incendiario (che tutti i tg hanno definito “senegalese” mentre si tratta di un francese naturalizzato italiano) non ha agito, infatti, ispirato dal fanatismo antioccidentale di marca jihadista.
Non solo non vi è traccia, nel suo vissuto, di alcuna “radicalizzazione” ma lui stesso, nelle agghiaccianti minacce profferite al carico di studenti delle medie che intendeva condurre a morte nel piazzale dell’aereoporto, ha chiaramente indicato il motore del suo gesto: vendicare i bambini annegati nel mediterraneo.
Sono parole che richiamano sinistramente quelle pronunciate dagli autori dell’episodio più atroce degli anni 2000; l’eccidio di Beslan.
“Voi Russi avete fatto soffrire e ucciso i bambini ceceni e, ora, noi vi ripaghiamo con la medesima moneta, così capirete”. In quel caso, però, il contesto era quello di una guerra “sporca” e punteggiata da crudeltà di ogni genere. L’espressione più ferocemente geometrica del principio per cui “odio chiama odio”.
Ma la logica per cui, per vendicare le sofferenze patite da piccoli innocenti bisogna infliggerne di uguali ad altri piccoli innocenti, è esattamente la stessa.
Un qualcosa che ci riporta alle radici più arcaiche delle atrocità di cui l’uomo ha dato ampia prova di sapersi macchiare.
Vendicarsi sui bambini (la cui incolumità è sacra a tutte le culture) è il confine più estremo dell’occhio per occhio.
Ma, soprattutto, ci ricorda un dato che dovremmo sempre tenere a mente: il cuore dell’uomo è un abisso (“vengono le vertigini a guardare giù” avrebbe aggiunto Buchner).
Nel profondo di ciascun uomo vive inabissata una dimensione oscura che non conosce i limiti del concepibile. Perchè per ciascuno di noi dovrebbe essere inconcepibile che la sofferenza per la morte di un bambino possa trovare ristoro nell’infliggere morte a un altro bambino.
Poi, però, si verificano, in rerum natura, dei punti di rottura che fanno si che quell’inconcepibilità venga meno.
Scandagliare i moti interiori dell’autista incendiario espone, inevitabilmente, al rischio di essere additati a “giustificazionisti”. Eppure noi abbiamo il dovere di farlo. Dobbiamo entrare in quella testa per quanto può darci repulsione. La semplice invettiva contro “il mostro criminale” pacifica, forse, il nostro sgomento. E ci mette a posto con il politically correct “cattivista” che sa essere ancora più ottuso e di quello “buonista”. Ma non ci aiuta per nulla a decifrare un gesto che ha una portata inquietante che travalica la sua singolarità nella misura in cui può rivelarsi la manifestazione prima di un nuovo modello terroristico che ha la sua matrice in una spinta puramente ritorsiva, svincolata da aberrazioni di natura religiosa.
Liquidare il tutto come “gesto dello squilibrato” vuol dire il classico mettere la testa sotto la sabbia.
Viviamo in una fase storica dominata da una comunicazione tetragona a qualsiasi complessità.
Una sorta di manicheismo di assoluta (e voluta) rozzezza intellettuale per cui bianco e nero, buono e cattivo, colpevole e innocente diventano categorie totalizzanti.
Rispondendo, poi, a esigenze di natura squisitamente propagandistica assumono anche quel di più di enfasi aggressiva che è funzionale all’acquisizione e alla mobilitazione del consenso.
Il fenomeno migratorio, che ha una portata epocale, di fatto costituisce l’argomento principe dell’odierna comunicazione politica.
E in tutto il mondo. La retorica dell’invasione ha giocato un ruolo fondamentale nel referendum sulla Brexit. E che dire dell’elezione di Trump?
E’ un argomento che ha una potenza davvero formidabile. Anche perché attinge a timori ancestrali.
E scuote sentimenti primordiali. In particolare il più primordiale di tutti; la paura.
Ma non voglio fare, qui, pistolotti morali.
E’ un dato di fatto che, oggi, il dibattito politico mondiale si gioca su questi temi e con queste modalità. Apporvi uno stigma è un esercizio sterile. E abbastanza ipocrita. La questione è che stiamo parlando, per così dire, di materiale estremamente sensibile.
L”apprendista stregone”, com’è noto, mescola elementi chimici di cui è poco consapevole circa l’esplosività e, alla fine, ne perde completamente il controllo. Alle volte ho l’impressione che ci sia davvero una scarsa consapevolezza in ordine alla pericolosità di sollecitare determinate chimiche primordiali. Dalla paura all’odio il passo è breve. E, come detto, l’odio chiama odio. La contrapposizione noi-loro, che è la chiave della comunicazione politica che oggi ha più successo, alla fine scava più in profondità di quanto possa pensarsi. Per di più se scandita quotidianamente ed ossessivamente.
Si vabbè, ma dove vuoi andare a parare? Che gliel’ha messa in mano Salvini quella tanica?
Certo che no. E’ una chiave di lettura di speculare superficialità a quella del “gesto di uno squilibrato”.
Epperò non se ne esce: dalla retorica della contrapposizione permanente, presto o tardi, sortiscono guasti incontrollabili.
Nell’era dei social, per gli uni il “contrapporsi” si risolve in via virtuale. Gli haters, i “cacciamoli tutti”, i “sono loro che non vogliono integrarsi”, i “rimandateli indietro in Libia”, scrivono un post. Può essere sgradevole, odioso financo ributtante. Ma resta un post.
Che, insieme agli altri milioni di analoghi post “contrappositivi”, finisce per sedimentare un comune sentire. Ma non fa scorrere il sangue. Non carbonizza nessuno. Poi, però, c’è chi quella contrapposizione finisce per agirla nel reale.
Ci sono menti, non necessariamente squilibrate ma comunque di scarsa capacità razionale, in cui si arriva al punto di rottura che schiude all’abisso.
E quindi? Anche qui, dove vuoi andare a parare? Che dobbiamo stare zitti e bravi altrimenti arriva uno che brucia i nostri figli sull’autobus?
No. Non è questione di fare gli irenici altrimenti c’è qualcuno che si incazza.
Ma finché non ci renderemo conto che la strada del “noi contro loro” (in quanto tutti clandestini, tutti “risorse” votate al crimine, tutti invasori del nostro sacro suolo) nel breve, porta consenso ma, nel lungo, destabilizza la società e la rende sempre meno sicura, non abbiamo speranza alcuna di affrontare efficacemente (e anche col giusto rigore) il problema migratorio.
Il cambio di paradigma politico/comunicativo non significa passare da cattivismo a buonismo.
Significa cominciare a ragionare con la testa.