Il vero garante dello status quo della magistratura non è il movimento 5scemi ma il PD
Per comprendere che, con questa maggioranza, non c’è nessuna speranza che si approdi a una riforma del sistema giudiziario che risolva i guasti che ammorbano il paese da quasi 30 anni (nemmeno dopo che il cosiddetto “caso Palamara” ha svelato tutti gli sconci del contropotere in toga) è sufficiente leggersi e dichiarazioni di questi giorni del responsabile giustizia del PD.
Che, peraltro, dimostrano come il vero macigno sulla strada di una radicale, ma necessaria, rivisitazione di un intero sistema, non sia lo sguaiato e sconclusionato giustizialismo dei 5scemi e dei loro danti causa giudiziari e giornalistici, quanto, invece, il partito che, a parole, rivendica, non si capisce bene a che titolo, la sua matrice riformista.
Intervenendo sul tema, il predetto responsabile giustizia, tale Walter Verini di dichiarata fede veltroniana (boh..), ci tiene a mettere in chiaro che il suo partito si opporrà a qualsiasi ipotesi di separazione delle carriere tra PM e giudicanti.
E perché? Udite, udite: lui vede “la tentazione di qualcuno di dare un colpo all’indipendenza della magistratura”.
Non c’è niente da fare.
Dal 1989 (anno di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale) siamo sempre lì.
Alla grande balla per cui, separando le carriere di giudici e pm pur mantenendo entrambi nel medesimo ordine giudiziario (che gode di assoluta indipendenza e autonomia), il “cattivo” (politico) finirebbe per dominare il “buono” (magistrato).
E’ noto a tutti gli operatori del diritto dotati di un minimo di onestà intellettuale, che si tratta di una bugia non solo priva di alcun fondamento giuridico e fattuale (come se tutti i paesi in cui vige la separazione i pm fossero asserviti al potere politico) ma totalmente illogica.
Per di più gli intrecci captati dal celebre trojan dimostrano l’esatto contrario, ovvero che condizionamenti magistratura/politica hanno potuto allegramente proliferare e, infine, degenerare, dando un colpo mortale alla già scadente credibilità del sistema giustizia nostrano, pur nella piena ed amorosa unione tra giudicanti e accusatori, liberi di cambiarsi di posto a loro piacimento.
La riforma Vassalli che, trentuno anni or sono, venne salutata come una sorta di rivoluzione copernicana del nostro processo penale (che passava dal sistema inquisitorio a quello accusatorio) conteneva una contraddizione ontologica destinata a produrre i disastri che, di lì a poco, avrebbero letteralmente messo il cappio al collo a un equilibrio tra potere politico e giudiziario indispensabile per il buon andamento di una democrazia compiuta.
Che, infatti, da allora è andato a rotoli conducendoci all’attuale scenario da incubo, tra populismi, scemocrazie e guerre per bande tra giudici.
Il processo accusatorio poggia su un principio indefettibile.
Ovvero la parità d’armi tra accusa e difesa, di fronte a un giudice equidistante da entrambi.
E’ evidente a chiunque (ma soprattutto a quanti frequentano, magari loro malgrado, le aule di Tribunale) che si tratta di un principio che non può avere alcun tipo di effettività in un sistema in cui il giudice (terzo) condivide con l’accusatore (di parte) la stessa medesima carriera che li vede, a tutti gli effetti, tra loro “colleghi”. E, per di più, interscambiabili.
Già questo basterebbe a conferire al processo accusatorio “all’italiana” lo stigma dell’ipocrisia e, quindi, della sostanziale iniquità.
Perché nessuna “parità” può essere data tra un libero professionista avvocato e il pubblico ministero “collega” dell’arbitro cui è demandato il dirimere il confronto tra di loro.
Giusto per capirci con un esempio assai concreto; nella vita quotidiana di tutti i Tribunali della Repubblica è costume, come si trattasse di cosa normalissima anziché di un vero e proprio malcostume, che il Pubblico Ministero (o il Procuratore Generale, in caso di grado d’appello) abbia libero accesso alla camera di consiglio, ovvero del luogo che dovrebbe essere il più sacro e intangibile di tutto il rito processuale penale, perché è lì che il collegio giudicante assume le sue decisioni.
Ovviamente l’avvocato non si sogna nemmeno di poter provare a violare quel “sacro luogo”.
Se ne sta fuori dalla porta con il suo cliente.
Gli altri, del resto, sono “colleghi”. Per loro è normale.
Basta questo per squarciare il velo d’ipocrisia sulla presunta parità tra accusa e difesa qui da noi?
No, non basta, perché, in quanto a distorsioni del sistema giustizia, qui da noi non vogliamo farci mancare proprio nulla.
E così accade che, nel corso dei decenni, il Pubblico Ministero sia diventato il soggetto forte non solo sull’avvocato.
Ma anche sul giudice.
Ed era inevitabile.
I giudicanti non li conosce nessuno.
I PM, grazie al noto circuito mediatico/giudiziario in servizio permanete effettivo dal 1992, sono, spesso, celeberrimi eroi del bene.
I beniamini della “ggente” che ha sete di giustizia.
E poco importa se, spesso, le loro inchieste fragorose si sgonfiano, dopo anni, come palloncini sfuggiti di mano a un infante.
Il gioco è fatto. La notorietà costruita. E la carriera assicurata.
Soprattutto al CSM.
Dove, da decenni, a prevalere per numero, sono, di gran lunga gli esponenti della pubblica accusa.
E, a questo punto, se una parte processuale (chè questo, in teoria, resterebbe il PM), ha la maggioranza nell’organo che decide delle carriere di tutti i magistrati, giudicanti compresi, il suo potere di condizionamento sui colleghi che dovrebbero essere arbitri, diventa, di fatto, un “dominio pieno e incontrollato”.
L’avvocato, in un contesto del genere, diventa accessorio di ben poco conto. Serve giusto per dare alla facciata una labilissima parvenza di equità.
Altro che “armi alla pari”!
Ma è proprio in questa incredibile distorsione degli equilibri su cui dovrebbe poggiare il processo penale che si annidano le cause, della indecente fenomenologia messa a nudo dal cosiddetto “caso Palamara”.
E’ lì che si ammassa la concrezione cancerosa che, da buon chirurgo, il politico riformatore dovrebbe asportare con il bisturi.
Ed invece, tra i sedicenti “riformatori”, ci ritroviamo sto Verini che non sa far di meglio che snocciolare fiaccamente la “fola” del possibile vulnus all’indipendenza della magistratura.
Una cosa sconsolante.
Le ragioni rispondono, in parte, a una sorta di riflesso condizionato che risente di antiche (e mai recise) contiguità.
Oltre che, naturalmente, all’istinto di sopravvivenza considerato che pluridecennale esperienza insegna che chi tocca certi fili muore.
Se i 5scemi si atteggiano a hooligans sostenitori dei PM (spesso combinando pasticci anche in quello, come nel caso della querelle Bonafede/Di Matteo), il vero garante dello status quo della magistratura italiana resta ancora il PD.
E allora, anche senza troppa malizia, può non stupire l’atteggiamento di Grillo, divenuto, dallo scorso agosto, strenuo difensore della partnership con il partito democratico.
Quando si hanno certi problemi in famiglia meglio tenerseli stretti i veri amici dei giudici.