Il Capitano ha umiliato i 5stelle rivelandone tutta la nullità
Che a vederli, tutti i giorni, in televisione recitare, senza inibizione alcuna, la parte di ministri e sottosegretari il dubbio che qual cosina la valessero, sti cinque cosi, quasi quasi stava venendo.
Poi è arrivato l’esito catastrofico delle europee.
E i silenzi, i balbettii, le ritrite banalità che gli eroi del “cambiamento”, con alla testa l’ex bibitaro del San Paolo, sono stentatamente riusciti a compitare ci hanno dato una certezza definitiva: abbiamo a che fare con delle assolute nullità.
Davanti a un rovescio del genere, infatti, chi ha stoffa politica qualcosa di compiuto deve riuscire a dirlo.
E’, davvero, il minimo sindacale. Soprattutto se non hai la decenza di compiere un gesto che, un tempo, sarebbe stato inevitabilmente consequenziale per un segretario di partito di fronte alla perdita anche solo di qualche unità di punto decimale.
E qui stiamo parlando di un dimezzamento secco nell’arco di un anno.
Qualcosa che, in una seconda repubblica in cui abbiamo assistito ai fenomeni più incredibili, non si era mai visto.
La conferenza stampa in cui uno smarrito Di Maio annunciava la volontà di “andare avanti” non avendo registrato indicazioni di segno contrario da Casaleggio jr, Dibba e Fico è la rappresentazione icastica della pochezza (per usare un eufemismo) di una classe dirigente che, sino a qualche giorno fa, grondava dell’arroganza tipica dei parvenus.
Parliamo di gente che, come gesto politico qualificante, ha decretato, giusto una decina di giorni fa, la morte di Radio Radicale.
Un’autentica infamia che li ha visti tetragoni agli appelli giunti da ogni dove, oltre che alle prescrizioni dell’ag.com., con un “front man” che incarna la quint’essenza dell’ottusità feroce del piccolo burocrate, tale Vito Crimi, cancelliere di Tribunale in aspettativa.
Questi sono i 5stelle al netto delle bugie, delle fanfaronate, delle gaffes: infami nell’esercizio del potere e tremebondi di fronte alla prospettiva della sua perdita.
Tutta una bolla propagandistica, alimentata da un sistema dell’informazione ormai definitivamente relegatasi alla sciatteria del gossip politico e dell’infotaiment, è implosa in una domenica di fine maggio.
Ripensare, adesso, ai giubili indecentemente ostentati per “l’abrogazione della povertà” mette quasi tenerezza. Se non fosse che quella che doveva essere la più grande operazione di voto di scambio dopo gli 80 euro renziani, ci è costata una barca di denari, per poi rivelarsi un flop assoluto sia sotto il profilo del sostegno alla povertà sia sotto quello della promozione elettorale.
E, ora, ci ritroviamo, pure, con tutto l’inutile, fatiscente e dispendioso baraccone, rappattumato per dare seguito alla fola delle “tre offerte di lavoro” cui non poteva credere, e non crede, nessuno.
Insomma, la schiacciante vittoria di Salvini ha il sapore dell’autentica umiliazione.
Per di più beffarda, considerato che le straordinarie capacità propagandistiche del capitano hanno potuto esplicarsi al massimo della potenza proprio con l’aiuto della totale incapacità pentastellata a frapporvi il benché mimino argine.
Salvo, poi, nell’ultimo mese di campagna elettorale, arroccarsi nell’unica ridotta disponile per politicanti improvvisati privi di qualsivoglia strumento culturale; il giustizialismo.
Di sicuro il risultato uscito dalle urne europee è quanto di più destabilizzante potesse darsi per il governo in carica.
E’ dallo scorso autunno, del resto, che queste elezioni venivano indicate come l’ordalia finale, quella che avrebbe indotto l’uno o l’altro a “staccare la spina”. In realtà più Salvini che Di Maio posto che, per quest’ultimo, sarebbe voluto dire riconsegnarsi a una ben mediocre esistenza.
Messa così, era, comunque, una previsione un po’ rozza.
Il capitano, al momento, non ha nessun interesse a staccare nessuna spina.
Indiscrezioni riportano che abbia invitato i suoi alla cautela perché “l’occasione è irripetibile”. E, probabilmente, si riferiva all’avere come partners dei fessi di tal fatta, quando mai gli sarà dato ritrovarne. Certo, ora per i grillini di governo non sarà facilissimo, dopo tante smargiassate, fare i cagnolini di un leader leghista che ha già presentato il conto (Tav, autonomia, decreto sicurezza).
Epperò quando ci sono di mezzo ragioni di strettissima concretezza quali il sostentamento personale, una maniera per adattarsi la si trova. Lo stesso discorso vale per l’esercito di parlamentari pentastellati.
Se, da quando la cooptazione ha sostituito la selezione elettorale, la stella polare esclusiva del parlamentare medio è la mera autoconservazione, costi quel che costi, queste truppe di autentici “inventati” si candidano a surclassare un qualsiasi onorevole Razzi. La legislatura ha, dunque, un collante assai robusto.
Poi, però, c’è la realtà.
Che prescinde dai mediocri giochini politici
. Ed è quella di un percorso che sarà sempre più ad ostacoli. Quelli di natura economica li conosciamo. E sono potenzialmente esiziali.
Poi c’è la grande incognita. L’azione della magistratura.
Fino a prima delle elezioni ero convinto (e non da solo) che sarebbe partita, entro la primavera, una grande offensiva delle procure nei confronti della lega salviniana. Segnatamente quella milanese, nei cui caveaux verosimilmente riposano quintalate di intercettazioni inerenti la regione lombardia e il suo sistema di potere (soprattutto sanitario). Mettere in piedi, sul modello dell’inchiesta umbra, un’operazione che sconquassi il cuore del potentato salviniano non deve essere così arduo. Ora ne sono un po’ meno certo. Salvini è, forse, troppo forte, in questo momento, per sferrare un attacco frontale. E i cinque stelle troppo deboli per fare da sponda. Poi, si sa, le cose, nei palazzi di giustizia, non sempre seguono traiettorie predefinite.