Gli Italiani ora pensano alle vacanze ma arriverà il “generale autunno”.

Dopo tre mesi di reclusione trascorsi a osservare l’esplosione della primavera da dietro le finestre è abbastanza ovvio che il pensiero, di più o meno tutti, indulga al recupero, per quanto possibile, delle “dolcezze perdute”. E così le vacanze estive sono diventate l’oggetto preponderante dell’attenzione collettiva. C’è un sostanziale rigetto psicologico nei confronti della riflessione sul trimestre interminabile che abbiamo alle spalle. E, ancor di più, sui i mesi a venire e, segnatamente, sul “generale” autunno che attende il paese e su come sarà possibile incollare i cocci di vite lavorative e professionali frantumate dal blocco generale.
Abbiamo sofferto.
Più di quanto pensavamo nei giorni lontani del “finirà tutto bene” e dei saluti dai balconi.
Ed ora si rivendica il diritto, tornati a vedere la luce dalle rispettive prigioni domiciliari, di “pensarci dopo” e dedicarsi a riassaporare la libertà graziosamente concessaci dal carceriere governativo.
Un “mood” che è difficile, del resto, stigmatizzare.
Nel corso dell’emergenza si sono sprecate, sin troppo, le metafore di natura bellica.
E, sin dall’inizio, è stato evocato lo spirito del secondo dopoguerra, come una sorta di feticcio benaugurale: ci riabbracceremo tra le macerie e con ancora gli occhi lucidi per le perdite patite, ma felici e innervati da una rigenerata energia che ci spingerà a ricostruire un paese migliore. Questo l’irenico ed oleografico quadretto che veniva dipinto sin dai primi dello scorso marzo, ovvero un’era “geopandemica” fa.

In realtà il fremito emotivo che attraversa il paese in questi giorni ha poco a nulla a che fare (“si parva licet..”, ovviamente) con quello del giugno del 1945. E’ una spensieratezza di cui tutti riconoscono la dimensione effimera ma sotto la quale tutti nascondono una sorda angoscia.
Nel dopoguerra, in uno scenario di devastazione immane, si guardava al futuro con speranza. Oggi ci si rifiuta letteralmente di guardarlo.

Un fenomeno analogo avviene in chiave retrospettiva.
Anche se in forma meno tetragona.
Persiste una ritrosia a riveder, “sine ira ac studio“, come effettivamente sia stata gestita l’emergenza.
Ed agiscono ancora logiche partigiane nell’approcciare la questione. Tuttavia un fondo di malumore critico comincia a serpeggiare in maniera abbastanza trasversale. Il dubbio che si poteva agire diversamente si insinua un pò in tutte le schiere.
Poi arriva puntuale il “pensa se c’era il felpa” a fugare ogni dubbio nelle schiere dei “Conte boys (and girls)”.

In realtà ci troveremmo esattamente nel momento migliore per ragionare sul futuro prima che diventi presente e ci trovi impreparati.
E per rivedere un passato recente prima che diventi rapidamente remoto assorbito dalla contingenza di una quotidianità che sarà irta di problemi e ce ne toglierà tempo e pure voglia.    
Provo a fare, sommariamente, entrambe le cose. E dal mio personale punto di vista.

E, allora, com’è stata affrontata l’emergenza dal governo giallorosso e il suo “uomo solo al comando”?

A mio parere non si può dire che sia stata affontata male.
Ma nemmeno bene.
Molto semplicemente non è stata affrontata.
Da febbraio a fine maggio siamo stati totalmente “sgovernati”.
Con un ricorso sistematico, soprattutto nella primissima fase, alla bugia.
Era una bugia penosa e pietosa quella proferita dal”premier” a metà febbraio, prima che gli eventi precipitassero ma quando già era chiaro che il problema poteva essere di non poco conto; “siamo prontissimi ad affrontare la situazione”.
In realtà, nonostante lo “stato di emergenza” fosse stato proclamato già a fine gennaio, non era pronto nulla. Ma proprio nulla.
Sia sotto l’aspetto della predisposizione di piani strategico/organizzativi. Sia sotto quello dell’approvvigionamento del materiale necessario.

Nulla.

Dopo il fatidico 21 febbraio e con i primi di marzo, all’incalzare degli eventi fa da contrappunto una totale estemporaneità decisionale.
Per di più maldestra.
Sta per iniziare la lunga fase dei dpcm annunciati prima di essere scritti.
La fuga notturna a seguito dell’annuncio, urbi et orbi, della Lombardia “zona arancione” è la prima delle tante pagine di comunicazione disorientante ed anticipata senza la predisposizione dei presidi necessari per evitarne gli effetti collaterali (nel caso di specie l’assalto alle stazioni nel cuore della notte) e senza, nemmeno, quella di un testo scritto che definisse con la dovuta chiarezza i termini del provvedimento assunto.
Queste saranno le caratteristiche costanti di tutti i dpcm che seguiranno.   Anticipati a mezzo social ad uso e consumo dell’ipertrofizzazione dell’immagine del “premier” e dell’incremento dei relativi like.
E di assoluta incertezza interpretativa.
Roba scritta sempre in ritardo. E sempre coi piedi.
Informata ad un’ambiguità in parte frutto di vera e propria sciatteria.
In parte voluta, lasciando ampi spazi di manovra per eventuali riallineamenti interpretativi in corso d’opera, a seconda di come sarebbe andata.
Ora, mentre sulla bugia è davvero difficile essere indulgenti, vi è da dire che, sulle altre eclatanti goffaggini sarebbe pur potuto (se non dovuto) cadere una sorta di oblio giustificativo dettato dall’esempio fornito, appena qualche settimana dopo, da pressoché tutti gli omologhi governi europei (e non solo). 
“Noi si poteva far di meglio. Ma guardiamo cosa si è fatto in casa d’altri”. Indugi, sottovalutazioni, inerzie.
Un catalogo di errori che ha interessato la maggioranza degli stati membri dell’unione (l’inghilterra resta un caso a sè) e, segnatamente, quelli di area mediterranea. Messa così anche le manchevolezze di Giuseppi potevano apparire questione secondaria.
Anzi, come reciterà con enfasi la propaganda governativa: “abbiamo dettato la linea agli altri”, “siamo dati di esempio per tutti”.
Sta di fatto, però, che, sia pure intervenuti con colpevole ritardo e con restrizioni che, in quel momento,   apparivano ancor più severe delle nostre (da noi non si era ancora arrivati alla caccia al passeggiatore solitario a mezzo elicottero), i nostri omologhi (pensiamo a Francia e Spagna), una volta superata la fase più critica (quella delle morti nelle astanterie di reparti senza più posti disponibili) hanno cercato di darsi una strategia che non si esaurisse nel solo lockdown a oltranza.

Dall’11 marzo in avanti, invece, l’impegno del governo si riassumerà solo ed esclusivamente in tre parole: “restate a casa”.

Le variazioni sul tema solo nel tono. Ora imperativo. Ora paternalisitico.
Ma il “piano strategico” dell’esecutivo inizia e finisce lì; “restate a casa”.
Dopo aver colpevolmente ritardato l’istituzione della zona rossa nelle aree della bergamasca in cui il virus stava deflagrando, ecco la grande decisione; tutta Italia zona rossa.
Come dire; due gambe sono gravemente fratturate e diverse costole incrinate ma noi ingessiamo tutto il corpo. Intere aree del paese a scarsissimo indice epidemico sono state congelate esattamente come la regione più infetta, la Lombardia.
Contestualmente, a sostegno della strategia governativa (“state a casa!”) è partita la criminalizzazione delle cosiddette condotte “incoscienti” (tipo fare jogging all’alba nelle strade deserte o passeggiare solinghi nei boschi) in un crescendo grottesco di pratiche repressive degne della guerra ai narcos del cartello di Sinaloa.
L’elicottero che sventa un tentativo individuale di godere del tepore primaverile su una spiaggia metafisicamente solitaria ne è l’emblema icastico.

Il tutto con lo zelante appoggio di un sistema dell’informazione che, sulle strabilianti peripezie dei cacciatori di “incoscienti”, ci ha costruito un format, riprodotto maniacalmente da ogni canale disponibile.

A definitiva epitome della rinuncia programmatica a qualsiasi tipo di decisione “politica” che andasse oltre lo “state a casa”, arriva la delega in bianco ai cosiddetti scienziati. E con essa i rituali quotidiani delle conferenze stampa demandate a questo o quell’esperto e con i ministri a far da coro greco: “ci riporteremo a quanto deciderà la scienza!”.

Ma, evidentemente, anche questo schermo non era ritenuto sufficiente ad allontanare lo spettro della responsabilità politica.
E così ecco la fioritura di task forces.
Utili assai, beninteso.
Ma giusto per annacquare ulteriormente, in una pletora di organismi a loro volta di pletorica composizione, una catena decisionale che, diffusa in mille rivoli, non consentisse di individuare chi aveva deciso cosa.
Del resto ben poche decisioni verranno assunte.
Solo, e ancora una volta, la ripetizione ossessiva del mantra: “state a casa, la fine dell’emergenza dipende solo ed esclusivamente da voi!”.

In un quadro del genere era abbastanza ovvio che, in una parte significativa dell’opinione pubblica, si sviluppasse una sorta di sindrome di Stoccolma che si manifesterà nella nascità dei vari “Giuseppi fan club”. Terrorizzate dal nemico misterioso (che può colpirti in ogni memento e in ogni dove, anche in lande desolate dove, però, può giungere il venefico aerosol trasvolato per interi kilometri), chiamate all’obbedienza come unico baluardo all’incalzare del morbo (passiva ma anche attiva, in guisa di guardiani al balcone armati di smartphone), accompagnate, in ciò, dalla suadenza paternalistica di un premier onnipresente sui media, ampie fasce della popolazione non potevano che regredire al livello di scolari delle prime elementari che idolatrano il “bravo maestro”.
Al “guai a chi critica Conte” si accompagna il “ma tu cosa faresti al suo posto?”.

E qui siamo all’apoteosi del gentismo.

Come se, per assolvere ai doveri alla più alta carica esecutiva della repubblica, non servissero qualità e competenze fuori dal comune oltre che il supporto di strutture complesse e specializzate.
No, il premier lo può fare anche quello che passa per la strada. E con gli strumenti cognitivi di cui dispone.
E vediamo se sa fare meglio di Conte, che ce la sta mettendo tutta.
Del resto è pur vero che Conte medesimo, quando venne designato Presidente del Consiglio, era poco più di uno che passava dalle parti dei grillini alla ricerca della classica “testa di legno” che facesse da prestanome ai veri decisori del nascente governo gialloverde (ossia Di Maio e Salvini).
E, poi, sarà sempre Conte a dare il suo personale suggello a questa logica “gentista” nella valutazione dell’operato di chi ha responsabilità istituzionali.
All’impertinente giornalista che gli chiederà conto delle tragicomiche performances del commissario Arcuri (uno dei personaggi più scandalosi dell’intera vicenda) risponderà, com’è noto, “se lei sa far di meglio terrò presente il suo nome”.

Siamo giunti al “poderoso intervento” della prima metà di Aprile.
400 miliardi pubblici spacciati come imponente elargizione di sostegno, in realtà appostati dalla Cassa Depositi e Prestiti (i risparmi degli italiani) a garanzia di prestiti bancari che, con ritardi pachidermici, vengono demandati al sistema bancario, con l’efficacia e il tempismo di cui i richiedenti sono buoni, ma sciagurati, testimoni.
Poi i 600 € e il click day funestato dagli hakers. E le casse integrazione che devono essere anticipate dai datori di lavoro.
Poi il decreto aprile, che diventa maggio e infine, depurato da insidiosi riferimenti temporali, “rilancio”.
Ma anche basta. Sulla retrospezione possiamo chiuderla qui.
Anche perché si tratta dello scandaglio di inerzie che giungono ai giorni nostri.

E vediamo la seconda questione, quella prospettica.

Cosa è dato attenderci quando, concluse le vacanze e giunte le brume autunnali (precedute, il 17 agosto, dalla fine del blocco dei licenziamenti), ad accoglierci sarà la vita ordinaria che ci attende tutti gli anni alla ripresa dell’attività lavorativa, stravolta, però, dal gorgo di un’intera stagione di blocco totale?

Tutti gli indici ci rispondono impietosamente con una parola; il peggio.

Una riduzione del PIL dal 9 al 13%.
Il più ingente depauperamento nazionale dalla seconda guerra mondiale ad oggi.
Una disoccupazione destinata ad incrementarsi di una percentuale a due cifre (con sette milioni di cassaintegrati già in essere).
Un debito pubblico che sfonderà, e non di poco, il 150%.
Questo il film dell’orrore macroeconomico in programma per l’autunno. Che, se fossimo soli soletti e “padroni a casa nostra”, si tradurrebbe, nel giro di un amen, in una crisi finanziaria devastante.
La ciambella di salvataggio, per fortuna, c’è.
E sono i fondi europei.
Senza saremmo letteralmente in braghe di tela.
Ma, nonostante taluni lo pretendessero e con fiero cipiglio, non sono denari regalati.
Nemmeno quelli “a fondo perso” del Recovery Plan (di cui si vedrà qualche ghello non prima dell’anno prossimo).
Com’è noto sono (e giustamente) subordinati a piani di riforma che non potranno risolversi nelle consuete e forbite chiacchiere con cui il Premier di diletta a deliziare la sua audience, come quelle dell’altra sera.
Ma saranno valutati con quella serietà che, in un paese in cui si è festeggiata poco più di un anno fa “l’abrogazione della povertà”, appare a i più una perfetta sconosciuta.
Ed eccoci al punto.
E’ ipotizzabile che l’attuale governo riesca ad affrontare cotanti marosi ed evitare, con la dovuta perizia marinaresca, che il naviglio, in parte già in avaria, si schianti sugli scogli?

A parer mio la risposta è no. Non è in alcun modo ipotizzabile.

E non solo alla luce di come il governo si è portato nel corso dell’emergenza sanitaria (se la capacità decisionale resta la stessa, siamo freschi).
Ma soprattutto per la sostanziale continuità qualitativa tra il Conte uno e il Conte due.
Il “pregio” politico, tolte le carnevalate e le sguaiataggini di Salvini, è rimasto invariato.
Alcuni incapaci sono rimasti. Altri sono stati sostituiti da soggetti parimenti incapaci.
Ed anche la trasmutazione di Giuseppi da servizievole prestanome dei suoi vice a “uomo solo al comando”, nella sua incongruenza fattuale, non cambia granché le cose.
E’ evidente che il vero e tragico problema di questo paese si chiama 5stelle.
Se non si fosse trattato di pandemia ma soltanto di un fenomeno epidemico circoscritto ai nostri confini, pure io (che non amo certe superstizioni) mi sarei convinto di essere al cospetto di una punizione divina di carattere biblico.
Un popolo che, perdendo il rispetto per se stesso, ritiene di permettersi il lusso di “provare” una banda di disadattati giusto per vedere se sanno far di meglio di “quelli che han distrutto l’Italia”, per di più abboccando ad una truffa politica orchestrata da un guittaccio male invecchiato in combutta con una società di marketing di non eccelse fortune di cui si vedeva lontano un kilometro la natura fraudolenta, non poteva che incorrere in una severa messa alla prova da parte dell’Eterno.
Comunque, punizione divina o meno, è andata proprio così.
Un destino cinico e baro (e anche un po’ beffardo) ha fatto si che ci siamo ritrovati nella peggiore temperie dell’era contemporanea con il peggior personale politico di tutta la storia repubblicana.
Ed ora dove pensiamo di andare con questi rottami della scemocrazia?
Gente che, con la fame alle porte e le casse statali in crescente ipossia, sta ancora a piantare la manfrina del no al MES “perché è un prestito e, dunque, va restituito”.
Ma è immaginabile che a predisporre i piani di intervento e di riforma necessari per l’erogazione dei fondi di ricostruzione siano personaggi di tal fatta?
Peraltro in un paese che, da sempre, spreca buona parte dei fondi europei ordinari per l’incapacità cronica di approntare piani di spesa congruenti. Questi sapranno, davvero, far di meglio?
Con un governo che non ha ancora definito (perché non ne ha la più pallida idea) quando e come riapriranno le scuole? Ma dai…        

Purtroppo la via maestra per depurare il parlamento dalla presenza ammorbante di questa marmaglia non pare percorribile.
Anche se, rispetto alla prospettiva di una rovinosa caduta nel burrone, quella delle elezioni anticipate dovrebbe non essere il tabù che evocano un po’ tutti.
Ma le condizioni politiche, ahimè, non ci sono.
E, dunque, non stiamo nemmeno a discettarne.

Sta di fatto che, a parer mio, se il principale partito di governo, ossia il PD (I5scemi lo sono nei numeri, che pure pesano, ma non esistono più nel paese), non assume un’iniziativa per sostituire un Premier bravo solo nella chiacchiera e rimpastare il governo con personaggi minimamente all’altezza del compito, l’Italia entrerà in una spirale drammatica.

E le soluzioni per uscirne potranno esserlo ancora di più. Altro che elezioni anticipate.

       

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