Formigoni e la barbarie giuridica; non è solo una questione di haters.
Le manifestazioni di giubilo che hanno accolto, sui social, la carcerazione di Roberto Formigoni non si può dire che stupiscano.
Il gusto, sordido, del linciaggio virtuale è, ormai, un costume nazionale ampiamente consolidato.
Del resto l’attuale primo partito ci ha costruito sopra gran parte delle proprie fortune.
Stupisce, semmai, che le voci indignate, con l’aria che tira, siano state tutt’altro che sparute. E piuttosto trasversali Un piccolo segno di civiltà che, di questi tempi, dà un suo conforto.
E’ quasi superfluo rimarcare, ancora una volta, che questo imbarbarimento ha radici lontane.
Il big bang è sempre quello; il biennio 92/93 e il sabba mediatico che accompagnò la demolizione sistematica dei partiti tradizionali (tranne uno, com’è noto). Da allora ci separa più di un quarto di secolo.
In cui la “guerra civile a bassa intensità” tra berlusconiani ed antiberlusconiani è stata abbondantemente alimentata dall’ossessiva retorica dell’indignazione sprezzante che è l’anticamera dell’odio.
L’arrivo dei social, dieci anni or sono, è come se avesse dato un megafono in mano a una moltitudine che era già predisposta al ruolo di hater.
Mettiamoci, poi, Grillo che ha sdoganato il vaffanculo come categoria politica fondativa.
Mettiamoci, ancora, l’apertura dell’house organ degli amanti delle manette con tutto il corredo di nomignoli odiosi in cui è, per così dire, maestro il noto portavoce delle procure che lo dirige.
Mettiamoci, infine, un’attitudine all’insulto triviale che è tutta nostrana. E probabilmente, attinge storicamente alla connotazione “plebea” che, per lunghissimo tempo, ha caratterizzato l’italia, il paese più miserabile d’europa fino a ben oltre gli inizi del secolo scorso.
Insomma, l’impasto approntato nella “lorda cucina” del circuito mediatico/giudiziario ormai più di una generazione fa, non poteva che lievitare e produrre quei borborigmi intestinali che, nel caso di specie, hanno avuto modo di sfiatarsi sulla figura del Celeste sulla soglia di Bollate.
Esattamente come, in tantissimi altri casi, hanno sfiatato sul malcapitato di turno. Condannato, indagato o anche solo intercettato.
Una fenomenologia, dunque, in cui non c’è granchè da scavare. A tacere della sua depressività.
Molto più interessante, invece, analizzare come l’imbarbarimento sia penetrato molto più a fondo nel lessico della nostra classe dirigente.
E non tanto quando si mette a fare a gara con gli haters telematici in termini di volgarità.
Quanto, invece, quando si sforza di essere, per così dire, terzista.
C’è una frase, in tal senso, che costituisce il paradigma dell’arretramento culturale stratificatosi un po’ in tutte le forze politiche.
Da ultimo l’abbiamo sentita risuonare nella vicenda di mamma e papà Renzi schiaffati ai domiciliari.
“Spero (oppure confido, sono certo, ecc.) che riescano a dimostrare la propria innocenza”.
Ecco, in questa frase c’è tutta ma propria tutta la barbarie giuridica cui, probabilmente senz’accorgersene, è irrimediabilmente scivolato un intero ceto politico.
Che parla così. E, dunque, pensa così. La cosa paradossale è che, tra gli altri, è stata pronunciata anche dall’augusto figliolo. Che si proclama garantista!
Ora, un principio basilare di qualsiasi stato di diritto è che non debba essere l’imputato a dimostrare la sua innocenza. Ma l’accusa a provarne la colpevolezza. La famosa “presunzione di innocenza” sancita dalla “costituzione più bella del mondo” sta tutta lì.
Che, in concreto, si tratti di una delle petizioni più ipocrite della nostra carta (superata solo dalla pena che non può essere contraria a principi di umanità e deve mirare alla rieducazione del reo), è fuor di dubbio.
Qualsiasi avvocato penalista sa perfettamente che, nel processo, o riesce a portare la prova positiva dell’estraneità del suo assistito alle accuse o ha ben poche speranze di cavarsela.
Ma se questa è la realtà, un ceto politico decente dovrebbe cercare di modificarla, trattandosi di un’eclatante distorsione dei principi fondativi del nostro convivere democratico.
Essere tenuti a dimostrare che “non si c’entra nulla” è tipico, infatti, degli stati di polizia.
Ed invece non solo l‘accetta. Ma la assimila, la introietta, la fa propria nel profondo e, infine, la postula.
Questo è quello che fa veramente paura.
Perché da il segno di un inquinamento “di falda” ovvero penetrato in tutti gli strati di terreno e giunto, infine, all’acqua.
A quel punto l’avvelenamento è già compiuto.
Molta più paura di un ministro di smisurata ignoranza che straparla di “certezza della pena” per cancellare quei benefici penitenziari grazie ai quali riesce ancora a reggersi un sistema penitenziario che, altrimenti, esploderebbe in un reale bagno di sangue. Salvo poi, quando si tratta di mettere in sicurezza un governo traballante perché l’alleato sta passando i suoi guai con la giustizia, inventarsi la categoria dei reati “fatti per gli altri” che, in quanto tali (boh…) sarebbero, tout court, scriminati.
Uno così è ovvio che non possa fare che danni. E la rozza mostruosità normativa chiamata, con eterea delicatezza, “spazzacorrotti”, è uno di quelli.
Come Formigoni sta provando sulla propria pelle. Ma questa legge proto medioevale, che riconferisce dignità al concetto di vendetta, non trova, forse, il suo archetipo nella “Severino”, a suo tempo votata in massa anche da partiti sedicenti garantisti?
Quelli, per l’appunto, che affermano, rassicuranti: “sono certo che saprà dimostrare la sua innocenza”.