Ancora una pagina nera del parlamento ma il peggio lo dà Forza Italia
La storia parlamentare, segnatamente quella degli ultimi 27 anni, non difetta certo di pagine miserabili.
La prima repubblica morente toccò, probabilmente, il suo vertice di viltà autolesionistica quando approvò, in un ossessivo sottofondo di tintinnar di manette, l’abrogazione dell’autorizzazione a procedere.
Consegnando, così, mani e piedi dell’indipendenza del parlamento a un potere giudiziario che, da allora sino ad oggi, userà, con ineffabile violenza, tutto il suo enorme potere di condizionamento sulla politica.
E contravvenendo, soprattutto, a una precisa ed esplicita volontà dei padri costituenti che vedeva nell’assemblea parlamentare il baluardo fondamentale della democrazia e, pertanto, approntò una guarentigia che ne preservasse la libertà.
Che ci avessero visto lungo sta lì a dimostrarcelo (con guance tonde) un intero quarto di secolo di abusi giudiziari.
Personalmente, devo dire, conservo un vividissimo ricordo di un’altra pagina di raro squallore che, probabilmente, molti hanno dimenticato.
Era in carica il governo Dini.
E si votava la sfiducia individuale all’allora guardasigilli Filippo Mancuso.
Era un Magistrato di rara sapienza e rettitudine morale.
Catapultato in un governo tecnico nel ruolo, in assoluto, più delicato in quel momento storico, non accettò di chiudere entrambi gli occhi sulle malefatte che venivano perpetrate, in primis, dalla procura di Milano.
E inviò degli ispettori fornendo loro il suo pieno ed aperto sostegno.
Apriti cielo. Il partito dei giudici (di cui il pds era una componente essenziale) fu inflessibile; l’eretico Mancuso andava sfiduciato.
Nel corso del dibattito il Ministro della Giustizia “in articulo mortis”, tenne un discorso memorabile per il nitore con cui stigmatizzava una metodologia che arrivò a definire “lorda cucina”.
Ma, a un certo punto, un personaggio di cui non ricordo l’identità gli si avvicinò e, mentre stava parlando, gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Mancuso, allora, tolse un paio di fogli dal novero di quelli che doveva ancora leggere. E di cui non sapremo mai il contenuto.
Nonostante l’emozione destata in aula, l’esecuzione capitale ebbe comunque luogo; Mancuso venne sfiduciato.
Viltà ed opportunismo avevano prevalso.
E un nuovo pernicioso precedente era stato introdotto.
A distanza di quasi venticinque anni rammento come se fosse ieri che, davanti alla diretta di quella seduta, feci molta fatica a non piangere per la rabbia.
Il cuore avrebbe avuto tempo ed ampie occasioni per indurirsi.
Oggi, mentre la seconda decade del nuovo millennio volge al suo termine, una nuova pagina di indicibile squallore viene scritta nell’emiciclo della Camera; il taglio dei parlamentari.
Un obbrobrio demagogico grondante oscenità e ipocrisia (ma se vuoi risparmiare perché non cominci a tagliarti lo stipendio?!) che, però, vede la convergenza di pressoché tutti i gruppi parlamentari salvo l’eccezione (encomiabile) di Più Europa e alcune (altrettanto encomiabili) defezioni individuali.
Viviamo in anni meno drammatici di quelli che correvano nei 90.
E, come detto, il cuore ha avuto modo di indurirsi.
Quindi non riesco proprio a provare rabbia. Ma solo un profondo e disarmante senso di pena.
Si tratta di un voto che si pone, comunque, in piena ed evidente continuità con le altre due “pagine nere” che ho testè evocato.
Il motore primo che, oggi, conduce il parlamento a dichiarare , in buona sostanza, la propria indegnità autocertificandosi come un semplice “centro di costo” cui apportare una (peraltro risibile) riduzione, resta quell’antipolitica che costituì l’essenza promozionale del circo “giudiziario-mediatico” artefice della “falsa rivoluzione” altresì detta “mani pulite”.
Un antipolitica che, sin dall’inizio, ha nutrito la sua vocazione autoritaria con l’odio verso la rappresentanza parlamentare.
I 5stelle sono i figli purissimi di quella sottocultura manettara.
Gratta gratta, sotto le loro idiozie pseudo programmatiche c’è solo e unicamente quello; bieco giustizialismo guarnito di invidia sociale.
Inutile prendersela con loro.
Esprimono, del resto, nella maniera sconclusionata e buffonesca che è loro propria, una corrente di pensiero che nel paese è sempre esistita e che, già dai primi anni della repubblica, veniva definita “giacobinismo straccione”.
Anche per quanto riguarda il PD è difficile stupirsi, nonostante nelle precedenti votazioni si fosse espresso in senso diametralmente opposto e con alati richiami alla costituzione.
Abbiamo da tempo imparato che, più che di un partito, siamo al cospetto di un aggregato che si sostanzia in nulla più che una cinica ed opportunistica macchina di potere.
Fuori dal potere boccheggia come un pesce fuor d’acqua.
Figuriamoci se adesso, dopo averlo riagguantato con una giravolta acrobatica, si dà pensiero di contravvenire a quelli che indicava, solo qualche mese fa, come principi irrinunciabili, in nome della stabilità (delle sue cariche).
Stesso discorso per la neonata creatura di Renzi.
“Primum vivere”, va bene.
Tuttavia non è un bel battesimo per una forza che ha l’ambizione di rappresentare la “nuova casa” del progressismo liberalpopolare chinare la testa al peggior populismo regressivo. Ma tant’è.
Saltando a piè pari lega e fdi, il cui substrato culturale (nonostante la lunga e lieta frequentazione delle prebende che sogliono ascrivere alla “casta”) non si discosta molto da quello dei grillopitechi, e che, pertanto, votano non senza coerenza, resta l’epifenomeno più disperante: il si di Forza Italia. Un partito nato per reazione alla perniciosa deriva manipulitista e che aveva la sua cifra fondante nella tutela degli spazi democratici dall’intolleranza di una magistratura ertasi a contropotere spalleggiata dal populismo giudiziario del Pds che, oggi, approva una gratuita umiliazione del parlamento.
Che si ispira proprio a quel ciarpame forcaiolo che aveva sempre combattuto.
Un qualcosa che non si può sentire.
Si può invecchiare, deperire e, infine, spegnersi con dignità.
Si può e si dovrebbe.
Ecco, quello che fu il più grande partito della seconda repubblica ha dimostrato di esserne incapace.