Al somaro lombardo andrà di pagare e tacere?
Un famoso manifesto propagandistico leghista dei primi anni 90 recitava “paga e taci somaro lombardo”. Era illustrato da un disegno che la leggenda voleva vergato da Umberto Bossi in persona. Rappresentava una gallina collocata in “padania” che sformava uova a beneficio di una figura femminile corpulenta collocata in quel di Roma.
Una felicissima sintesi di quello che fu il motore primo dei successi leghisti che, da un seggio senatoriale conquistato nell’87, trasformeranno la creatura bossiana in un fenomeno politico dirompente. Quello che, oggi, sono i cinque stelle, ancorché con un insediamento territoriale strettamente limitato alle regioni del nord di cui, all’indomani di mani pulite e prima della “discesa in campo” del Cavaliere, la Lega era arrivata a esercitare un controllo pressoché assoluto. Il propulsore di questa incredibile ascesa era, senz’ombra di dubbio, la rivolta fiscale.
“Padroni a casa nostra” aveva un’accezione innanzitutto economica: “padroni dei nostri soldi”.
Poi verrà tutta la retorica, dai tratti misticheggianti (il Dio Po’..), della nazione padana con relative ritualità, gadgets e parlamenti immaginari. Ma la rivolta vera si era nutrita e aveva preso slancio da un concetto di stretta concretezza: noi, quassù, sgobbiamo e paghiamo uno sproposito di tasse per mantenere un resto d’Italia parassitario, fancazzista ed imbroglione.
Sono passati quasi trent’anni.
Una prima repubblica è stata brutalmente liquidata per via giudiziaria. Una seconda è implosa nella sua sciatta inconcludenza. Viviamo nel mondus novus della globalizzazione, del massiccio trasferimento di potere dalla politica alla finanza, della rete onnivora, della disintermediazione, dell’esplosione del fenomeno migratorio.
Ma quella questione primigenia che Umberto Bossi brandiva come lo spadone di Alberto da Giussano appartiene davvero ad un’altra stagione storica?
Il nord produttivo non è più percorso dalla rabbiosa frustrazione di dover tirare la carretta anche per conto di un sud mai uscito dalla sua dimensione assistenzialista, ma anzi? E, soprattutto, la vocazione nazionale che Salvini ha voluto tenacemente imprimere al suo partito ed il consenso imponente che gli sta guadagnando, “tiene dentro” saldamente le ragioni del settentrione nell’era del “governo del cambiamento”? L’assertività con cui il capitano “tira dritto” sul percorso tracciato dal noto contratto (questo a te, questo a me) indurrebbero a ritenere che si senta piuttosto tranquillo sul punto. E che creda che “flat tax” e “reddito di cittadinanza” siano un endiadi a somma zero. Il sud se ne sta tranquillo a godersi la mega mancia di Stato. E il nord si gode, finalmente, i denari un tempo drenati dal fisco.
In realtà c’è da dubitare che Salvini ragioni in maniera tanto ingenua e che, in piena ebbrezza di potere, non riesca più a distinguere l’alata propaganda dalla dura realtà. Anche perché la flat tax, a quanto pare, riguarderà meno dei proverbiali quattro gatti.
Mentre, invece, il “reddito di cittadinanza” comporterà un mostruoso trasferimento di risorse pubbliche (sia pure in forma di debito ma, per l’appunto, pubblico) a favore del sud italia.
Che possa promuovere l’inserimento dei beneficiati nel mondo del lavoro non ci crede nessuno. Non solo mancano totalmente i presupposti perché il meccanismo si metta in moto: i centri per l’impiego sono una realtà miseranda e fatiscente (e ci vogliono anni per ricostruirli pressoché da zero) e l’infrastruttura informatica per incrociare offerta e richiesta è semplicemente inesistente. Ma, poi, l’idea di trovare tre proposte di lavoro a cranio su un mercato del lavoro che, al sud, è in stato comatoso, appartiene al mondo dei sogni, oltre che a quello, naturalmente, delle fanfaronate da imbonitori da fiera.
Inevitabilmente la misura si rivelerà per quello che è; la pietra angolare del peggiore assistenzialismo parassitario.
Peraltro estinguendo ogni residua e minimale speranza che il sud possa mai camminare sulle sue gambe. E pesando, in primo luogo, sulle spalle del nord.
Se al capitano la questione non può di certo sfuggire, l’impressione è che, giocando una lotta con il tempo (massimizzare il proprio consenso e sganciarsi al momento opportuno), sia convinto di tenere sotto controllo il count down che lo separa da una reazione di rigetto di quello che ancora oggi è l’lettorato di riferimento del suo partito.
La recente parabola renziana ci avverte, però, che un singolo errore può travolgere le ascese più vertiginose. E che il senso di infallibilità può far letteralmente perdere il senno all’eroe eponimo di turno.
Nella sottovalutazione della portata di una “nuova rivolta nordista” e del relativo timing potrebbe annidarsi, per Salvini, l’errore “che conduce a ruina”.
Agli albori della lega andava in onda una trasmissione chiamata “profondo nord”. Scandagliava gli umori di un settentrione che, nonostante non fosse ancora in corso una crisi economica, pareva ribollire come un maelstrom. Oggi, con una politica che di fatto traccia una linea di demarcazione tra nord e sud (fin qui si lavora da qui in giù si aspetta la paga), quegli umori non solo sono destinati a risvegliarsi ma ad essere amplificati al punto tale da far sembrare i loro antenati null’altro che un borbottio di fondo.