Il ruvido Giorgetti, il povero Conte e la manina (non molto) misteriosa.
Che la frattura provocata dalla “manina” di “porta a porta” rappresenti, per dirla con Churchill, “la fine dell’inizio”, pare abbastanza evidente.
Più incerto se coincida con “l’inizio della fine”. Cosa che, di solito, non capita. Fatto sta che una certa dinamica è stata innescata. E ricorda molto l’unico precedente che si registra in tema di dietro front ministeriali su provvedimenti già votati in consiglio.
Quello del decreto Biondi e della successiva abiura di Maroni che, a suo dire, “non l’aveva letto”. Era il Luglio del 94.
Vigilia della sfortunata finale dei mondiali tra Brasile e Italia. La frattura fu composta sommariamente (come probabilmente avverrà nei prossimi giorni) e seguirono le pacche sulle spalle estive tra Bossi e Berlusconi. Ma i rapporti tra Lega e Forza Italia entrarono in una spirale di deterioramento. E si infransero, sotto il cannoneggiamento della procura di Milano, appena cinque mesi dopo. Del resto non c’è nulla che possa minare la fiducia reciproca più di un’accusa, in malafede (perché Maroni era in malafede esattamente come lo è oggi di Maio), di aver provato a tirare in bidone. Ieri, sulla graticola, c’era Alfredo biondi. Oggi Giancarlo Giorgetti. Accusati, più o meno velatamente (ed entrambi ingiustamente), di aver “fatto i furbi”. Biondi, che era un galantuomo d’altri tempi, ci rimase molto male. E non riuscì a malcelare la mortificazione. Ma, alla fine, accettò di essere immolato.
Giorgetti è di tessuto molto più ruvido.
E, in un’intervista a Repubblica di straordinaria schiettezza (qualità che al personaggio va senz’altro riconosciuta), non le manda proprio a dire. E ci offre un interessantissimo spaccato di vita governativa ai tempi del “cambiamento”. Veniamo, così, catapultati direttamente nella Sala del Consiglio dei Ministri. Dove Giorgetti dice di aver seguito e verbalizzato solo i primi 6 articoli. Dopo se ne sarebbe allontanato perché aveva una “cena importante” (secondo una versione di marca 5 stelle) o perché incazzato per il mancato inserimento di una norma che gli stava a cuore (secondo la versioni di altri insiders).
“E lì non so cosa sia successo, non c’ero e non sono stato io a redigere il verbale. Non so chi l’abbia fatto. Da quel che mi è stato riferito il decreto è stato approvato dopo che il Premier Conte ha supervisionato il testo apportando le modifiche ritenute necessarie”.
In questo caso è il sottosegretario Garavaglia a svelare l’identità del verbalizzante ignoto a Giorgetti: in qualità di ministro più giovane niente popò di meno che il “vice premier” Di Maio. Insomma una riunione a suo modo casereccia. Con un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio “eminenza grigia” che, nel corso della discussione di un provvedimento fondamentale, a un certo punto se ne va per questioni sue. E con la seconda carica governativa relegato al ruolo di segretario, come, nelle assemblee condominiali, capita ai più fessi. Comunque tutto sotto l’occhio vigile e attento dell’”avvocato del popolo”. Come, dove e quando possa essere intervenuto il misfatto denunciato da Di Maio, resta un mistero non particolarmente gaudioso. Ma tant’è.
Ancora più succulente sono le rivelazioni di Giorgetti in merito agli eventi girati intorno alla puntata di “Porta a Porta”: “lasciamo stare il fatto che non hanno ritenuto di comunicarci prima la cosa. Il fatto è che non hanno avvertito nemmeno il povero Conte: il premier si è ritrovato a Bruxelles in una situazione già non facile e sputtanato a casa dai suoi”.
E ci pare quasi di vederlo, al cospetto dei cerberi europei, questo “povero” Primo Ministro Italiano “mandato al fronte mentre qualcuno gli bruciava la casa” (sempre Giorgetti). Conclusioni: “così diventa tutto più difficile, il governo non va vanati per molto. Noi abbiamo tutta l’intenzione di portarlo avanti ma se questi continuano a vedere complotti ad ogni passaggio alora non ci siamo”. Più chiaro di così. E dire che il traguardo che, entrambi gli alleati/contendenti si sono dati non è particolarmente distante. Alle Europee 19 mancano poco più di 7 mesi. E, senza inibizione alcuna, sia lega che M5S, hanno più volte ammesso che la manovra “del cambiamento” è squisitamente funzionale a raccogliere messi di voti a quella tornata. Le “mance di Renzi” come metodo elevato all’ennesima potenza. Tanto, poi, “tutto cambierà”. Al contempo un eccesso di determinismo e un trionfo del “wishful thinking”. Attitudini, entrambe, assai pericolose in politica. Come insegna la precedente parabola dell’ex sindaco di Firenze. Sette mesi in cui può capitare di tutto. Le randellate che ci assesterà l’Europa vengono date per scontate. E lì vale “il me ne frego” perlomeno fino a quota 400 (di spread). Ben più imprevedibili sono le sorprese che può riservare un M5S in cui, innanzitutto, non è mai ben chiaro chi comandi (c’è chi vede nell’imbarazzante retromarcia di Di Maio una strigliata giunta da Sant’Ilario) e che ha confermato di essere capace davvero di tutto. Per una persona seria e che, sia pure nelle compromissioni che impone la politica, ci tiene alla propria reputazione è molto difficile lavorare con questi qui. Come per il “povero Conte” incombe diuturno il rischio dello “sputtanamento”. Non è un caso se, a Roma, tutti gli assessori e i dirigenti con un minimo di curriculum, se la sono data a gambe, sostituiti da gente a dir poco improbabile.
Si, vabbè, ma l’alternativa? Questo è un altro discorso. E cercheremo di farlo. Poco più in là.