Fenomenologia del navigator, l’inoccupato che insegnerà agli inoccupati come trovarsi un’occupazione.
I diecimila navigators da assumere, a tambur battente, sulla base di un semplice colloquio si prefigurano come una delle più massicce operazioni clientelari degli ultimi anni.
Oltre che, naturalmente, tra i pochissimi inserimenti al lavoro che il “reddito di cittadinanza” sarà in grado di assolvere.
In qualche maniera rappresentano l’apoteosi di una fenomenologia cresciuta esponenzialmente nel decennio: quella delle finte professionalità.
Che, a sua volta, si connette alla proliferazione di sedicenti percorsi formativi nelle materie più varie e composite.
Molti dei quali, seguendo una logica implacabilmente circolare, formano altri formatori, in un circuito ermeticamente chiuso che autoalimenta se stesso.
Prendiamo, ad esempio, le figure dei Counselor o dei Life Coach.
Fino ai primi anni duemila erano sconosciute ai più, ancorchè, da decenni, fossero consolidate nel mondo anglosassone e, segnatamente, negli Stati Uniti. Abbastanza improvvisamente sono divenute familiari ed attrattive anche da noi.
Con un portato di pressapochismo e, spesso, di cialtroneria assolutamente autoctono.
Schiere di “senz’arte né parte”, generalmente ultratrentenni con irrilevanti e saltuarie esperienze lavorative alle spalle, vi hanno visto il riscatto di un’esistenza già sul piano inclinato della marginalità.
E un riscatto a portata di mano. Per dischiudere le porte della realizzazione personale e dell’approdo a una professionalità qualificante, infatti, è sufficiente accedere a uno dei tanti “percorsi” di qualche decina di ore presenti sul mercato dei corsi formativi.
Mercato tanto ampio quanto assolutamente opaco nel richiamarsi ad astruse entità che certificherebbero il valore dei corsi erogati attribuendo, così, al corsista che li porta a termine delle qualifiche del tutto improbabili nella loro autoreferenzialità perfettamente circolare.
Lo schema, in tal senso, è presto detto.
Degli “esperti” della materia erudiscono i discepoli per un numero predefinito di ore per poi conferire loro un attestato che consente di formare altri discepoli i quali, a loro volta, ne potranno formare altri ancora in una catena infinita in cui non è dato individuare, per così dire, il formatore “numero zero” ossia colui che, portatore di una conoscenza autonoma, ha dato l’innesco alla successiva diffusione della stessa.
Materie, poi, da far tremar le vene e i polsi. Ma suscettibili di un’ampia gamma di declinabilità.
Il counselor è un qual cosina di meno dello psicologo. Non foss’altro perché costui uno straccio di titolo accademico ha dovuto guadagnarselo per potersi iscrivere al relativo albo.
Comunque assolve a una funzione non molto dissimile; orientare il “consigliato” (paziente proprio non possiamo chiamarlo…) nelle intemperie della vita; sviluppandone la consapevolezza, svelandogli la radice inconscia di molti atteggiamenti sbagliati, suggerendogli protocolli comportamentali. Il che, come si diceva, può essere declinato in moteplici ambiti. Dalla vita sentimentale, ai rapporti con la prole, alle problematiche lavorative.
La cosa singolare è che, nella stragrande maggioranza dei casi, il “consigliere” ha alle spalle un vissuto totalmente fallimentare proprio negli ambiti in cui si trova a “salire in cattedra”.
Un susseguirsi di rapporti irrisolti. Un saltabeccare da un espediente lavorativo all’altro. Una vita familiare inesistente o, comunque, precaria.
Questo lo spettro esperienziale del “counselor” medio, uscito dalle tenebre dell’inoccupazione grazie al fatidico percorso formativo.
E che dire del Life coach?
Qui parliamo di uno che, udite udite, deve “allenarti alla vita”.
E ci immaginiamo esseri circonfusi dalla luminescenza del successo sociale, della fiducia incrollabile in se stessi, della brillantezza delle relazioni.
Poi, invece, abbiamo, per l’appunto, a che fare con gente che, per sbarcare il lunario, non ha trovato nulla di meglio da fare che insegnare agli altri come vivere quella vita che, sino al raggiungimento del salvifico attestato, stentava a galleggiare sulle acque del fallimento. Attestato quasi sempre attribuito da “formatori” di analogo quadro personologico.
Come dire; l’ esperto di diete che insegna come raggiungere repentini cali ponderali ma pesa oltre i 100 kg ed è stato erudito da altri esperti a loro volta obesi. Circolarità perfetta.
Il “navigator” non si discosta dal modello.
Anzi, nella sua istituzionalizzazione, si pone come il prototipo più avanzato.
Che, addirittura, ottiene il riconoscimento dello Stato e ne può diventare, a tutti gli effetti, un ganglo.
Non per nulla, prima ancora del varo del “reddito di cittadinanza”, hanno cominciato a manifestarsi le prime entità che propongono “corsi di formazione” che trasformeranno chiunque in un nocchiere infallibile tra le aspre procelle e le ammorbanti bonacce del mercato lavorativo nostrano.
E’ sempre la stessa catena.
Gente che un lavoro stabile non è mai riuscita a procurarlo a se stessa insegnerà ad altra gente come trovarsi un lavoro.
E tutto sulla base di un corso di formazione di qualche decina di ore.
A questo punto viene da chiedersi perché solo diecimila.
E perchè non, invece, prevedere piani annuali di assunzione continuativi nel tempo. Così il navigator potrebbe orientare il disoccupato a diventare a sua volta navigator. Oppure, previo corso, formatore di altri navigator. E così via. In un cerchio perfetto.