Il caso Salvini e la goffa ricerca dell’alibi dei 5stelle
Mentre Salvini dimostra di aver bene assimilato l’arte di “dribblare l’alleato” di cui era maestro il primo Bossi (che prendeva una posizione, attendeva che il partner politico vi si allineasse, e, il giorno dopo, la cambiava diametralmente, avendo, peraltro, a che fare con il cavaliere, mica pizza e fichi come, invece, il capitano), i 5stelle, fattisi cogliere totalmente spiazzati, devono escogitare l’ennesimo incredibile pasticcio per uscire dall’angolo.
E così, a corollario di tutto un repertorio di idiozie giuridiche di cui sono infaticabili accumulatori, si inventano una nuova figura processualpenalistica: “la costituzione in procura”.
Se questa autentica stupidaggine (che pare riecheggiare memorie dei tanti film western in cui l’antagonista viene intimato di “costituirsi allo sceriffo”), non sorprende in bocca a personaggi di improbabile cultura leguleia (ma anche di cultura tout court), lascia, ancora una volta, stupefatti che venga avallata da un premier che si vorrebbe professore universitario di diritto, sia pure civile.
Possibile che, tra i tanti consiglieri allegramente cooptati tra i vecchi compagni di scuola, non ce ne sia uno in grado di spiegare a Di Maio che i processi non sono delle festicciole a cui ci si autoinvita presentandosi all’uscio dell’ospite e pretendendo di essere accolti.
E nemmeno un siparietto edificante come la famosa scena della salita sui tavoli de “l’attimo fuggente”.
Parlare di “autodenuncia”, rivendicando la piena condivisione politica della “chiusura dei porti” imputata a Salvini, fa semplicemente ridere i polli.
Non siamo al cospetto del complice di un omicidio che, dopo aver immobilizzato la povera vittima di un accoltellatore consentendone l’uccisione, riesce, poi, a dileguarsi ma, colto dal rimorso, si presenta al Pubblico Ministero per confessare l’apporto dato al delitto.
Di certo ai Giudici che, dopo la richiesta di archiviazione, hanno ritenuto di procedere all’imputazione coatta del ministro dell’interno, è ben chiaro che gli atti di un ministro implicano la condivisione del Presidente del Consiglio, innanzitutto, in quanto responsabile delle politiche del governo ma anche degli altri colleghi.
Altrimenti, in quel governo, qualcuno dovrebbe dare le dimissioni. O il ministro proponente che si vede sconfessato da uno o più pari grado. Oppure questi ultimi che vedono approvata una decisione cui sono contrari.
A tacere, poi, del fatto che non stiamo parlando di un accordo preso in segreto nel corso di una riunione riservata.
Ma di atti, per eccellenza, pubblici. In cui fanno fede resoconti, verbali ecc.
Che sicuramente i Giudici hanno potuto esaminare prima di decidere di chiamare alla sbarra il solo Salvini.
Eppure, nonostante si tratti di considerazioni elementari, è capitato di vedere il “pasionario” pentastellato dei due mondi altresì noto come Dibba, che, in una pausa delle sue lunghe vacanze esotiche, si esibisce, tutto acchittato, nel salotto buono televisivo per eccellenza dove, garbatamente incalzato da Vespa sull’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei Ministri, ipotizza la redazione di “memorie” da parte di premier e ministri, con cui formalmente si autoaccusano di aver condiviso una decisione assunta da un componente del loro governo. Il che, come detto, costituisce un’assoluta ovvietà.
Viene da chiedersi se, davvero, sanno quello che stan dicendo.
La mia personale impressione è che non si pongano proprio il problema. Come per la concessione ai Benetton revocata unilateralmente (“perché non si possono attendere i tempi della giustizia”), cosa, per legge, si possa o meno fare costituisce una variabile irrilevante rispetto al vero obbiettivo; l’effetto mediatico della dichiarazione.
Nel caso dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, però, il problema è molto ma molto più spinoso che non guadagnarsi qualche like, “tanto poi i fans dimenticano”. Entro febbraio una commissione dovrà esprimere un parere. Ed entro Marzo dovrà pronunciarsi il Senato. E la questione è secca. Si o no. Dentro o fuori. Per dirla col latinorum: tertium non datur.
Di certo non sarà una risibile e impraticabile “autodenuncia collettiva” a fermare un iter in cui i senatori pentastellati saranno costretti a prendere una decisione.
E dovranno farlo alla luce dell’editto salviniano enunciato, urbis et orbis, a mezzo del “corriere della sera”: “questo processo non s’ha da fare né domani né mai”.
Altrimenti (subordinata implicita ma molto chiara) il governo cade.
Anni e anni di predicazione anticasta e antiprivilegi nonché di gaudente approvazione di tutte le richieste provenienti dalla magistratura, sottoposti a uno stress test che ammazzerebbe un toro Miura.
E allora appare evidente che, dietro alla cazzata dell’autochiamata in correo, si cela, molto maldestramente, l’alibi che i cinque stelle agiteranno a più non posso per giustificare l’inevitabile voto no che dovranno esprimere in Senato. Una cosa è, infatti, sicura.
Pur di non mollare gli scranni questi, come tutti i buoni a nulla, sono capaci di tutto.
E così prepariamoci al nuovo mantra. “Noi siamo contro sempre e comunque i privilegi della casta tra cui quello di potersi sottrarre a un giudizio diversamente da ogni altro cittadino, però qui è un caso diverso perché a essere sotto accusa non è solo un ministro ma l’intero governo e noi non possiamo permettere che.. ecc.”.
Del resto si tratta del marchio di fabbrica di tutti i “partiti degli onesti”, “partiti del popolo” e via sguazzando nel “rifugio preferito dalle canaglie” ossia il moralismo.
Noi ci comportiamo esattamente (e, spesso, peggio) degli altri. Ma siamo diversi, la situazione è diversa, il contesto è diverso. E, comunque, abbiamo il sostegno del popolo. E buona lì. Un po’ come i Blues Brothers: “in missione per conto di Dio”. E mi perdonino Ayckroyd e Belushi.